il 16 dicembre 2025

Ieri mattina, nella sede di Sicindustria Palermo, si è tenuto un incontro che ha rivelato un cambio di passo nel modo in cui imprese, formazione e politica guardano al continente africano.

Non un convegno autoreferenziale, ma un luogo di dialogo tra voci diverse - istituzioni, imprese, accademia e organismi internazionali - per ripensare opportunità e relazioni tra l’Italia e l’Africa.

C’è qualcosa di profondamente simbolico nel fatto che a Palermo, città stratificata, mediterranea, mai del tutto risolta e proprio per questo radicalmente contemporanea, si sia tenuto questo incontro. Lavorare in Africa non è un’impresa non è stato soltanto il titolo di un evento, ma una dichiarazione di metodo: smontare la retorica dell’eccezionalità, del rischio, dell’altrove.

Il LUMSA University Africa Center ha orchestrato questo confronto che ha evitato sia l’entusiasmo ingenuo sia il paternalismo stanco. Ne è emersa una visione lucida: l’Africa non è più una frontiera, ma un interlocutore. E la Sicilia, per storia, posizione e vocazione produttiva, può tornare a essere ciò che è sempre stata nei momenti migliori della sua storia: ponte, laboratorio, zona di traduzione.

Oltre lo sguardo emergenziale

Per troppo tempo l’Africa è stata raccontata attraverso lenti deformanti: emergenza, instabilità, bisogno. L’incontro palermitano ha operato un ribaltamento semantico, prima ancora che economico.

Il continente africano è stato restituito alla sua complessità strutturale: crescita demografica, urbanizzazione accelerata, nuovi ecosistemi imprenditoriali, una generazione giovane e iperconnessa che non chiede assistenza, ma partnership.

In questo quadro, parlare di investimenti non significa esportare modelli, ma co-progettare. È una differenza sottile, ma decisiva. Ed è una differenza che la Sicilia conosce bene: terra spesso osservata dall’esterno come problema, e che invece ha sempre prodotto soluzioni ibride, adattive, resilienti.

Formazione come infrastruttura invisibile

Uno dei nodi centrali emersi ieri riguarda la formazione. Non come accessorio, ma come vera infrastruttura strategica. Il ruolo dell’università si colloca in questo spazio intermedio tra sapere e fare, tra teoria e applicazione.

In Sicilia, dove il mismatch tra formazione e lavoro è ancora evidente, il tema assume una risonanza particolare. Pensare percorsi educativi capaci di dialogare con mercati africani significa anche ripensare il destino dei giovani siciliani, spesso costretti a emigrare per mancanza di opportunità locali.

Qui il parallelismo è potente: Sicilia e Africa condividono una storia di marginalizzazione rispetto ai centri decisionali, ma anche una capacità endemica di adattamento. Investire in competenze interculturali, giuridiche, economiche significa creare figure in grado di muoversi tra Palermo, Dakar, Abidjan o Algiers con naturalezza.

L’impresa come racconto concreto

Le testimonianze imprenditoriali hanno avuto il merito di riportare il discorso a terra. Storie di aziende siciliane che operano già in contesti africani, dimostrando che il rischio non è un destino, ma una variabile da governare.

Qui la Sicilia offre esempi silenziosi ma significativi:

  • aziende agroalimentari che dialogano con filiere nordafricane;

  • imprese di logistica che sfruttano la centralità dell’isola; e

  • competenze nel settore energetico e ambientale che trovano applicazione naturale in contesti africani in forte espansione.

Non si tratta di replicare modelli industriali del Nord, ma di valorizzare saperi locali, spesso nati proprio dall’esperienza della scarsità e della complessità.

Politica, cultura, cooperazione

La tavola rotonda finale ha ampliato ulteriormente lo sguardo, ricordando che nessuna relazione economica è neutra. Cultura, politica internazionale, conservazione del patrimonio e cooperazione multilaterale sono parte dello stesso ecosistema.

Palermo, con la sua eredità arabo-normanna, con i suoi mercati che parlano più lingue, con una memoria storica che attraversa il Mediterraneo, non è solo una sede logistica. È un contesto simbolico. Qui l’idea di cooperazione non suona astratta: è esperienza quotidiana, convivenza, stratificazione.

Una nota necessaria: il Piano Mattei come cornice

Sullo sfondo di questo incontro si intravede chiaramente il Piano Mattei, evocato non come bandiera, ma come orizzonte.

Il Piano, al netto delle sue declinazioni politiche, introduce un principio che qui trova una declinazione concreta: la relazione con l’Africa come partnership strutturale, non come intervento episodico.

L’evento di Palermo mostra cosa può diventare il Piano Mattei quando smette di essere documento e diventa pratica:

  • non grandi annunci, ma ecosistemi di competenze;

  • non solo energia e infrastrutture, ma formazione, imprenditoria, capitale umano;

  • non centralismo romano, ma territori che si assumono un ruolo attivo.

In questo senso, la Sicilia è una piattaforma naturale del Piano Mattei. Non per vocazione ideologica, ma per storia materiale: porti, rotte, migrazioni, scambi. Qui l’Africa non è un concetto geopolitico, è una presenza reale.

L’Africa non è una scommessa... la Sicilia non è una periferia. Entrambe sono spazi di futuro, se osservati con lo sguardo giusto.

E forse è proprio da luoghi come Palermo, lontani dai centri, ma vicini alle rotte: che può nascere una nuova grammatica delle relazioni internazionali.

CPM

Suivant
Suivant

L’école en communion avec la nature : des pas pratiques vers une éducation à l’environnement